L’imprenditore ha portato la connessione attraverso i servizi satellitari di Starlink nel villaggio remoto dei Marubo facendo uscire gli abitanti da secoli di isolamento. “All’inizio si è aperto il mondo ma ora sono tutti sui telefonini. Sono diventati pigri. Non parlano, non lavorano, non si muovono”
Qualcuno sorride, altri gridano. Altri ancora iniziano a digitare in modo compulsivo. Sui cellulari appaiono e scompaiono le immagini, foto e video che arrivano da luoghi lontani, sconosciuti. Sembrano quasi in trance, concentrati su parole, frasi, disegni, animazioni, colori che scorrono come un fiume. Un uomo manda un messaggio viaWhatsAppalla fidanzata. Apre la funzione video e ride come un pazzo, divertito dalla reazione che vede dall’altra parte dello schermo.
La scena avviene nel cuore della foresta amazzonica, in uno dei villaggi della tribù Marubo: un popolo che vive lungo le sponde del fiume Ituì. Sono duemila e da secoli restano isolati. Non hanno contatti con l’esterno, tranne le vedette incaricate di fare gli acquisti essenziali nelle prime zone abitate. Una delle tante riserve naturali che il Brasile ha loro assegnato per diritto ancestrale. Ma ai primi di settembre questo territorio rimasto immune al contagio del mondo “civilizzato” ha subìto un contraccolpo che ha messo in crisi la struttura sociale stessa su cui si fonda la loro sopravvivenza. Elon Musk ha avuto l’idea di raggiungere anche la terra Marubo con la rete internet veloce. Lo ha fatto tramite Starlink, il servizio di Space X, la sua compagnia spaziale. Ha lanciato 6 mila satelliti a bassa orbita e ha collegato zone remote in ogni angolo della Terra: dal Sahara, alle praterie mongole, agli atolli del Pacifico. Un salto nella modernità. Una opportunità per popolazioni ancorate al loro eterno passato.
Dopo nove mesi, due cronisti del New York Times sono andati in Amazzonia per capire come fosse stata accolta questa rivoluzione tecnologica e gli effetti prodotti su una tribù incontaminata. L’esperimento è stato positivo, ma destabilizzante. «Quando è arrivata la rete», ha spiegato ai due cronisti Tsainama Marubo, 73 anni, una delle anziane del villaggio, «tutti erano felici. C’era la novità e tanta curiosità. Da questi schermi si apriva un mondo a noi sconosciuto. Internet offriva molti vantaggi evidenti. Come le chat con i propri cari lontani e la possibilità di chiedere aiuto in caso di emergenza. Ma le cose ora sono peggiorate». Tsainama si guarda attorno e con un gesto della mano indica il villaggio immerso in un silenzio irreale. «Ecco», soggiunge, «sono tutti lì, concentrati sui telefonini. Sono diventati pigri. Non parlano, non lavorano, non si muovono. Sono come imbambolati. Scorrono le immagini, leggono con il traduttore, navigano ore e ore immersi in un coma che spaventa».
Mentre continua a mischiare le erbe per il colore nero da usare come tintura, la saggia capo tribù scuote la testa rassegnata: «I giovani stanno imparando i modi dei bianchi». Infatti, dopo appena nove mesi, i Marubo sono già alle prese con le stesse sfide che da anni tormentano le famiglie urbanizzate: adolescenti incollati ai telefoni; chat di gruppo piene di pettegolezzi; social network che creano dipendenza; estranei online; videogiochi violenti; fregature; disinformazione; e pornografa.
All’interno di una moloca, la capanna alta 15 metri dove gli abitanti dormono, cucinano e mangiano insieme, si sentono grida e rulli di tamburo. Un gruppo di indigeni segue su tre telefonini una partita di calcio. Tsainama neanche si volta a guardare. «Accade ogni giorno. La gente del villaggio è felice. Va bene così. Ma internet per noi è stato come un terremoto. Non abbiamo avuto il tempo di capire, studiare, imparare a usarlo. È stato uno shock». Meglio rinunciare? «Per carità, ci sarebbe una rivolta. Supereremo anche questa. Ma non toglieteci Internet».
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