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Photo du rédacteurMario Salis

Nathan Thrall: “L’Europa deve isolare Israele, palestinesi nei ghetti da 50 anni

Il premio Pulitzer: “Gerusalemme deve garantire eguali diritti senza cambiare lo status quo è impensabile la soluzione a due Stati”

USKI AUDINO

Parlare dei due Stati è un modo per tacere la vera questione: «Un sistema di dominazione sui palestinesi che dura da oltre 50 anni» e che potrebbe finire se si minacciasse seriamente Israele di isolamento, dice il premio Pulitzer per la saggistica 2024, Nathan Thrall, autore di Un giorno nella vita di Abed Salama, edito in Italia da Neri Pozza. Thrall è un ebreo americano che vive in Israele dal 2011, dove ha moglie e tre figlie.

Il suo libro racconta una giornata nella vita di un palestinese in Cisgiordania. È molto diversa la vita di un palestinese da quella di un israeliano?«Più diversa non è immaginabile. Parliamo di infrastrutture e strade completamente separate, di cancelli all’ingresso degli insediamenti israeliani ai quali non è permesso accedere se palestinesi, a meno di avere un permesso di lavoro come cuochi o giardinieri. Mentre io, come turista americano, non ho alcun problema ad accedere alle terre palestinesi. A Gerusalemme vivo a due chilometri di distanza dalla famiglia di cui parlo nel libro. Loro abitano dall’altra parte di un muro alto 8 metri e devono passare il check-point per andare al lavoro o a scuola. Dal loro lato non hanno marciapiedi, non hanno bancomat per una popolazione di 130.000 persone, non hanno un singolo giardinetto, ma pagano le tasse alla municipalità in cambio di zero servizi. E questo gigantesco ghetto di povertà si trova giusto sotto la più prestigiosa università di Israele, l’Università di Gerusalemme. Quindi la classe medio-alta che risiede nell’area e lo staff dell’università guardando in basso vedono la situazione nel ghetto».

Crede che le parole “ghetto” e “apartheid” siano appropriate?«Negli States usiamo la parola ghetto per descrivere una comunità impoverita, non necessariamente in riferimento ai ghetti della guerra mondiale. Ma certo un gruppo fortemente impoverito, circondato da un muro e costretto a vivere in un’area, come altro vuoi chiamarlo? Il termine apartheid è stato definito dalla convenzione internazionale delle Nazioni Unite nel 1973 e poi nello Statuto di Roma della Corte penale internazionale come sistema di dominazione di un gruppo di persone su un altro con l'intento di mantenere il sistema di oppressione. Questa definizione si adatta perfettamente alla situazione in Israele».

Ha detto che la soluzione dei due Stati è una forma di distrazione, non è il problema più immediato. Qual è il punto allora?«Il problema è un sistema di dominazione sui palestinesi che dura da oltre 50 anni ed è descritto con il termine di “apartheid” dalle principali organizzazioni umanitarie del mondo, incluse Amnesty International e Human Rights Watch, insieme a organizzazioni israeliane dei diritti umani come B’Tselem e palestinesi come come Al-Haq. Questo è il punto da affrontare, piuttosto di condurre astratte discussioni sul tipo di realtà che vorremmo una volta che questo sistema di dominazione sarà crollato. Europa e Usa hanno accettato questo sistema, pur sapendo che era ingiusto, ben prima del 7 ottobre».

L’Europa cosa dovrebbe fare?«Il minimo sarebbe non armare. Invece sta mandando armi. L’Europa dovrebbe da una parte cessare la sua complicità e dall’altra offrire a Israele un incentivo per uscire da questo sistema. Come? Dicendo a Tel Aviv: sei isolata, non avrai il nostro sostegno. E non come minaccia futura, ma immediata. Non avrai il nostro sostegno finché questo sistema di dominazione rimarrà in atto. E come può finire? In due modi: dando ai palestinesi la cittadinanza con uguali diritti o dando loro la sovranità, con un proprio Stato. Aiutare economicamente Israele a mantenere lo status quo e poi dire in conferenza stampa “Chiediamo che la violenza finisca” è qualcosa che il governo israeliano può accettare».

Ma Biden ha sospeso l’invio di armi per qualche giorno, non era un messaggio a Tel Aviv?«La sospensione dell’invio è stato puramente un segnale. E più all’elettorato statunitense che a Israele. Si voleva mostrare di fare qualcosa senza fare niente. Lo stop ha riguardato comunque una piccola parte del carico, e nel frattempo la maggior parte dell'invio è proseguita. L’amministrazione Usa non ha mai voluto minacciare Israele con qualcosa di significativo».

L’antisemitismo nel mondo è cresciuto dal 7 ottobre in maniera esponenziale. È preoccupato?«Certo. C’è da dire che le persone stanno confondendo giudaismo e sionismo, perché si confondono le azioni di Israele con le azioni degli ebrei nel mondo. Ma bisogna anche dire che il governo israeliano agisce per promuovere questa confusione, sostenendo che giudaismo e sionismo sono inseparabili e pretendendo di agire in nome del popolo ebraico. Questo è il motivo per cui gli antisemiti dicono: bene, se Israele agisce in nome del popolo ebraico allora il popolo ebraico massacra civili innocenti a Gaza».

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